Breve excursus sulla storiografia della musica popolare

L’interesse per la musica popolare da parte della cultura dotta risale a quel periodo di fermento culturale che si verifica in Europa con il sorgere dell’Umanesimo e del Rinascimento. Un insieme di fattori contribuisce a questo risultato:

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 In Italia il primo a dedicarsi ad una sistematizzazione teorica della materia è il filosofo napoletano Giambattista Vico (1668-1744), il secondo è lo storico emiliano Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), che con uno sterminato lavoro di erudizione pubblicò tre fondamentali raccolte di testi e documenti, occupandosi anche della cultura materiale e della cultura popolare (usi nuziali e funebri, giochi, spettacoli, mercati).

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Nel periodo pre-romantico l’ammirazione per le culture popolari tradizionali induce il poeta scozzese James MacPherson a fingersi scopritore dei versi lasciati inediti dal leggendario bardo Ossian (III sec d. C.), pur essendo essi frutto della sua fantasia.

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 Nel Romanticismo ottocentesco l’attenzione alla cultura popolare si coniuga con l’ideale della autodeterminazione nazionale dei popoli.

Il poeta romantico Giovanni Berchet (1783-1851), autore in proprio di ballate fa dire così a Grisostomo nella famosa Lettera Semiseria scritta al figlio: "T’hanno insegnato che c’è una sola bellezza: la greco-latina; ma tu leggi e confronta: vedrai che ogni popolo capace di civiltà, ogni grande età ebbe un proprio ideale di poesia e di bellezza. La nostra civiltà deve avere una cultura diversa dalla classica. I tedeschi trassero ispirazione dalle superstizioni e dai costumi del loro popolo perché si ridestasse in loro il sentimento nazionale. L’Italia non è ancora una nazione: ma c’è una patria letteraria, per ora, in comune".

Nel nome di una patria ideale e allo stesso tempo reale nelle sue espressioni nazionali ed etniche, i romantici coltivano il loro interesse per la poesia e per la musica popolare. Hanno inizio le grandi raccolte di testi e musiche. Tra i primi in Italia si ricordano: Guglielmo Muller, Augusto Kopisch e Carlo Witte. Tutti e tre questi studiosi tedeschi non solo sono tra i primi raccoglitori di canti popolari italiani ma hanno un’altra particolarità significativa, essi criticano la cultura dotta italiana per la sua indifferenza e sottovalutazione della poesia popolare.

Ricordiamo ancora il giornalista corso Silvio Giannini e Pietro Ercole Visconti che afferma nel suo saggio "i canti popolari appartengono al popolo o per creazione o per adozione" (concetto poi ripreso da Antonio Gramsci).

Ma il primo grande studioso del canto popolare italiano è il dalmata Niccolò Tommaseo che pubblica nel 1841 a Venezia i suoi "Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci", rispettando la dettatura popolare perché, come dice; "il correggerli sarebbe stoltezza sacrilega". Il Tommaseo, in effetti, è tra i primi a elaborare principi teorici e metodologici per sistematizzare la vasta materia che si stava accumulando. Ne formula almeno quattro:

Un altro ricercatore, nel quadro risorgimentale qui accennato, è Lionardo Vigo (1799-1879) che ebbe però il torto di correggere e abbellire alcuni testi raccolti. Al Vigo seguirono una serie di raccoglitori regionali tra cui Vittorio Imbriani, Giulio Ricordi, per ricordarne alcuni.

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 Una svolta decisiva in questo campo deriva dall’opera di Costantino Nigra (1828-1907) che nel 1888 pubblica i "Canti popolari del Piemonte". La raccolta Nigra è importante sia per le sue dimensioni sia per la metodologia critica usata. Per la prima volta viene applicata sistematicamente l’analisi comparata, seguendo anche i dettami elaborati da un altro raccoglitore, il Tigri, a lui contemporaneo, distinguendo tra l’altro le forme primitive dei canti dalle forme derivate e collocandole nel tempo e nello spazio che le hanno prodotte.

Il Nigra studia metodicamente il gran materiale raccolto e individua delle prime classificazioni. Distingue, da una parte, i canti popolari narrativi o canzoni (storiche, romanzesche, domestiche, religiose) e dall’altra i canti lirici (strambotti o stornelli). Mentre i canti narrativi o canzoni si contraddistinguono per i contenuti e la loro funzione, nei canti lirici l’aspetto più significativo è da collegarsi alla metrica e al ritmo. Il Nigra inoltre colloca le canzoni come elemento predominante nell’area settentrionale a substrato celtico e italico allo stesso tempo e in collegamento con canzoni analoghe comuni a popolazioni non italiche; strambotti e stornelli sono invece, secondo il Nigra, una predominante dell’Italia centro-meridionale a substrato puramente italico.

Egli si dedica inoltre l’indagine delle origini dei canti, operazione assai difficile, perché la lingua della canzone popolare si presenta con caratteri lessicali e grammaticali moderni anche quando si tratti di un canto di sicura origine arcaica; esso è trasmesso attraverso diversi interpreti che in genere aggiornano la lingua secondo l’evoluzione spontanea che essa ha avuto nel tempo, tanto da fargli dire "il popolo dà opera a una redazione perpetua del suo canto". Questo metodo, improntato alla trascrizione fedele del canto così come è stato espresso, è ben diverso da quello utilizzato abitualmente dai compositori colti che, quando vogliono ispirarsi alla musica popolare, tendono a ricostruire atmosfere ridondanti di arcaismi e fitte di citazioni da testi musicali del passato (v. C. Orff, G. Malher, I. Stravinsky...)

In conclusione si può dire che il Nigra, con le sue ricerche, la sua opera di raccoglitore e di filologo, ha contribuito in maniera determinante alla diffusione e conoscenza del canto popolare. L’approfondimento delle sue indagini ha portato, nel campo della poesia popolare, un nuovo metodo di studio.

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Il personaggio che, dopo Nigra, ha dato un ulteriore importante contributo alla ricerca folklorica in Italia è il medico siciliano Giuseppe Pitrè (1841-1916). Pur spaziando le sue indagini a tutta l’Italia e all’Europa, la sua opera fondamentale è la "Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane", in venticinque volumi, di cui due di canti e gli altri di raccolta di fiabe, proverbi, indovinelli, motti, scongiuri, feste, giochi, usi, costumi, credenze, medicina popolare. Sfruttando la sua professione di medico e visitando persone del popolo anche molto anziane egli si faceva raccontare tutti i loro ricordi sui molteplici temi e aspetti della tradizione siciliana.

Alla fine del secolo XIX c’è un grande fervore di ricerche locali, vengono stampati vari testi di raccolte di canti a livello regionale tanto da definire il periodo tra i due secoli un ventennio d’oro per i nuovi apporti.

Nel decennio successivo il sardo Giulio Fava (1880-1949) e il siciliano Alberto Favara Mistretta (1863-1923) sono considerati gli iniziatori dell’etnomusicologia, una scienza ancora nuova per l’Italia. Il Favara, direttore del Conservatorio di Palermo, raccoglie più di 1000 musiche popolari siciliane.

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 Ma l’opera del Favara sarà pubblicata postuma solo nel 1957, perché nei primi anni del Ventennio stavano maturando in Italia fenomeni che avrebbero avuto un effetto negativo sulla ricerca della musica popolare. Nelle Università va imponendosi il pensiero di Benedetto Croce che, pur avendo dimostrato interesse per la cultura popolare come storico e come erudito, in nome dell’idealismo svaluta il momento folklorico come non poetico. Croce condiziona pesantemente la ricerca con il suo pensiero estetico, esemplificato con estrema chiarezza già nei titoli di due sue opere: "Poesia e non poesia" (1923) e "Poesia popolare e poesia d’arte" (1933).

D’altro canto nella vita sociale e politica si va affermando il Fascismo, regime sospettoso della totale libertà di espressione propria del repertorio popolare. Il Fascismo pone dunque la ricerca folklorica sotto un controllo ferreo, la valorizza quando è utile in chiave propagandistica e nazionalistica, la osteggia e la censura quando i testi sono antireligiosi, antipatriottici, pacifisti od osceni. Gli studi in questo campo continuano soprattutto grazie all’Opera Dopolavoro, creata per organizzare il tempo libero, ma la ricerca, pur essendo pubblicate anche nuove opere, resta mutilata nella sua ricchezza e spontaneità di contenuti.

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Una svolta importante nella ricerca sui canti la da il filologo e dantista Michele Barbi (1867-1941). Il suo legame all'estetica crociana lo porta ad una meticoloso studio, finalizzato a ritrovare il testo primitivo di un canto, depurato da tutte le alterazioni dovute al trascorrere del tempo e alla trasmissione orale. Questa esigenza di tipo colto, legata ai suoi studi, sarà successivamente superata, nel momento in cui il Barbi comprese che per il canto popolare ciascuna variante assume la dignità di un nuovo testo.

Attraverso la ricerca sul campo il Barbi mette insieme un'imponente raccolta di canti, che affida ai suoi allievi della Scuola Normale di Pisa. Pochi di questi canti sono stati finora pubblicati, cinque soltanto dal Barbi, a confermare il lavoro di tipo prettamente filologico che egli imposta su di essi.

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Tra gli studiosi e ricercatori del primo Novecento merita ricordare almeno quattro nomi: Pratella, Santoli, Caravaglios e Toschi.

Il romagnolo Francesco Balilla Pratella (1880-1955) fu compositore colto, autore del Manifesto futurista della musica e sensibile cultore del folklore musicale. Vittorio Santoli (1901-1971), allievo del Barbi, inizia a studiarne la raccolta, pubblica un'importante raccolta di saggi . Cesare Caravaglios pubblica nel 1936 una fondamentale opera: "Il folklore musicale in Italia". Paolo Toschi (1893-1974), anche lui allievo del Barbi, è professore di Storia delle tradizioni popolari all'Università di Roma e si assume il ruolo di efficace divulgatore del folklore, con importanti pubblicazioni, una edita dal Touring Club d'Italia, "Il Folklore"(1955).

In campo opposto a quello crociano, troviamo il pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937), comunista, perseguitato dal fascismo, che nella sua raccolta di riflessioni "I Quaderni del Carcere" dimostra la poliedricità dei suoi interessi ed esprime una famosa teoria anche sul concetto di folklore. Egli vede nelle manifestazioni del folklore una forma palese di reinterpretazione della storia secondo una concezione popolare che si oppone a quella dominante.

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La stagione del fascismo si sta spegnendo e così l'influenza crociana, altri tempi sono maturi. Nel 1948 a Roma si costituisce il Centro Nazionale per gli Studi di Musica Popolare, collegato con la RAI e con l'Accademia di Santa Cecilia, animatore di esso è Giorgio Nataletti (1907-1972) che partecipa a numerose campagne di ricerca e pubblica un importante saggio che segna il passaggio definitivo ad una nuova epoca di studi.

Il personaggio di spicco del dopoguerra è Ernesto De Martino (1908-1965), che riprende le riflessioni di Gramsci. Egli si dedica all'approfondimento di tre filoni: il lamento funebre, il tarantismo pugliese, il folklore progressivo. Di ciascuna esperienza ne trarrà materiale per la pubblicazione di tre saggi.

A Torino si forma il gruppo di Cantacronache, e a Milano il Nuovo Canzoniere Italiano, che riprendono l'impostazione di studio di De Martino, costituendo un Istituto che prende il suo nome, a significare la continuità d'intenti. La quantità di materiale raccolto dal centro è enorme, e può comparare con le raccolte del Barbi e degli Studi di Musica Popolare di santa Cecilia. Tutte queste raccolte soffrono però degli stessi problemi, le difficoltà di studio, di comparazione, di pubblicazione critica richiederebbero risorse in termini di personale esperto e di finanziamenti che finora sono mancati.

 

 

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